Antica e nobile famiglia dalle origini incerte (chi li vuole originari della Sassonia, chi di Forlì), i Rasponi si sono affacciati alla ribalta della scena politica e sociale ravennate dalla fine del Trecento per prendere il posto dei Da Polenta. Potenti e numerosi, i Rasponi già dal XVI secolo si dividevano in più rami e questo giustifica ancora oggi la presenza in città di innumerevoli loro dimore.
Nel medioevo hanno sostenuto i ghibellini, conseguendo importanti titoli onorifici. Il titolo comitale, ad esempio, gli è stato conferito dall’Imperatore Federico III nel 1469.
Aderendo poi al partito guelfo, hanno ricevuto dai papi altrettante onorificenze, potere e prestigio. Tra il Quattrocento e il Cinquecento, i Rasponi sono diventati il braccio armato della Santa Sede: hanno aiutato i Legati Pontifici a cacciare i Veneziani dalle terre di Romagna e hanno combattuto molte guerre in nome del Papa, ad esempio contro gli Ugonotti e contro i Turchi. Questo perché i Rasponi erano una famiglia che contava tra i suoi membri numerosi uomini d’arme, coraggiosi e valorosi; per cui non solo il Papa ma anche molte città italiane ricorsero al loro aiuto per dirimere fatti di guerra. Abusando del loro potere, alcuni esponenti della famiglia si sono macchiati di atroci delitti, spesso accompagnati da saccheggi e devastazioni di beni, tanto da essere cacciati in esilio.
Questo uso spregiudicato del potere, spesso avallato dal beneplacito della Chiesa, li portò ad essere nel Cinquecento i veri padroni della città.
La potente famiglia Rasponi, attraverso i secoli, ha accumulato case, palazzi, castelli e rocche in un contesto difficilmente superato da altre nobiltà. Tra i suoi membri si annoverano cardinali, condottieri, accademici, ma anche criminali e scialacquatori di patrimoni.
Essendo i Rasponi numerosissimi, non è possibile qui passarli in rassegna tutti, ci limiteremo ad alcuni esponenti le cui storie ci sembrano più intriganti di altre.
Partiamo dalla storia di una donna, Giovanna Fabri, vedova di Teseo Rasponi e madre di Felicia Rasponi. Giovanna doveva essere una donna non proprio amorevole, poiché costrinse la figlioletta, di soli quattordici anni, a una vita di clausura nel Monastero di Sant’Andrea, sebbene Felicia avesse tutt’altre aspirazioni. Una vera leonessa questa Giovanna, che infatti, nel 1541, fece ristrutturare completamente il palazzo di famiglia ubicato nella guaita di San Pier Maggiore (tra le attuali vie Corrado Ricci e Guido da Polenta) conferendogli un aspetto austero da vero e proprio fortilizio. La ristrutturazione prevedeva un angolo fortificato, chiamato poi Torre di San Francesco, e piccole torricelle laterali sorrette da barbacani, contro la cui edificazione i nemici dei Rasponi si appellarono al governatore di Romagna, Mons. Giovanni Del Monte, poi Papa Giulio III, il quale autorizzò comunque la prosecuzione dei lavori essendo amico di Giovanna e del figlio, il Capitano Cesare. La torre e le torricelle laterali sono poi scomparse, ma si possono ancora immaginare dove oggi è il balconcino d’angolo (stiamo parlando, per intenderci, del palazzo che oggi al piano terra ospita la Ca’ de Vèn). Perché questa necessità di un angolo fortificato? Perché il Cinquecento ravennate è stato costellato di numerosi fatti di sangue, quindi la fortificazione del palazzo poteva avere un senso e la torretta poteva fungere da punto di avvistamento. I Rasponi, potenti quanto criminali, avevano infatti molti nemici. E Giovanna fu, per l’appunto, molto accorta tanto da trasformare la sua dimora in un vero e proprio fortino.
Veniamo, quindi, al conte Girolamo Rasponi, tristemente noto in qualità di mandante del massacro della famiglia Diedo, avvenuto il 29 gennaio del 1576. Originari di Venezia, i Diedo si trasferirono a Ravenna durante la dominazione della Serenissima ed edificarono la residenza di famiglia, in perfetto stile rinascimentale-veneziano, lungo l’attuale via Raul Gardini, proprio di fronte al palazzo del conte Girolamo (l’attuale Palazzo Vitelloni, il cui ingresso è sull’odierna via Guerrini). Questa vicinanza dava adito a frequentazioni obbligate fra le due famiglie, sguardi indiscreti dalle rispettive finestre, incontri sulla strada, colloqui davanti le porte. A causa di questi continui contatti, il giovane Bernardino Diedo si innamorò dell’avvenente Susanna Succi, nipote di Girolamo. I due ragazzi, in breve tempo, convolarono a nozze e dall’unione nacque subito una bambina. Girolamo, dal carattere estremamente sanguigno, non gradì per nulla questo matrimonio, risentito del fatto che Bernardino, prima di invaghirsi dell’affascinante Susanna, avesse già frequentato intimamente una delle sue sorelle. Così, il conte, che non poteva tollerare tanta sfrontatezza, meditò la tremenda vendetta. Con i suoi scagnozzi, la notte del 29 gennaio, irruppe nel palazzo dei Diedo e trucidò ben sette membri della famiglia, tra cui Bernardino, ma anche la nipote Susanna che non fu risparmiata sebbene in avanzato stato interessante. Dalla strage si salvarono solo la balia e la primogenita di Susanna e Bernardino, pare perché nascosta sotto una “mastella”. Il Papa, Gregorio XIII, pretese l’immediata demolizione del sontuoso palazzo di Girolamo Rasponi, che avvenne nel giro di pochi giorni. Era costume, in quel tempo, demolire le proprietà dei condannati e degli assassini. Sulle rovine fu sparso il sale a monito che nulla vi dovesse sorgere. Venne messa una taglia sul Rasponi e sui suoi complici, molti dei quali furono rintracciati nei mesi successivi, processati e giustiziati. Girolamo fu esiliato e trovò rifugio a Ferrara senza mai fare più ritorno a Ravenna.
Da un bruto, come Girolamo Rasponi, passiamo ad un personaggio da fiaba: Augusta Rasponi Del Sale, detta Gugù. Figlia del conte Lucio e della nobildonna Amelia Campana, di origini bolognesi, la contessina Augusta avrebbe potuto condurre una vita di agi per il nome che portava; ma il lusso e la mondanità non erano per lei. Gugù aveva due sole grandi passioni: il disegno e l’amore per i bambini, in particolare per i bambini infelici, quali gli orfani, i malati, i figli di ragazze madri. Per soccorrere ed aiutare i bambini più disagiati, Gugù si privò di quasi tutto il patrimonio di famiglia. A Ravenna diresse l’opera dei figli dei carcerati e fu presente in tante altre attività assistenziali.
Gugù amava anche il disegno e debuttò come illustratrice nel 1898 con un calendario dove i protagonisti erano ovviamente i bambini. È nota la sua collaborazione col Giornalino della Domenica e col Corriere dei Piccoli. I suoi libri, “Tur-Lu-Ri” e “Mother Duck’s Children”, sono stati pubblicati a Parigi e a Londra. Ed è proprio in questa città, presso il Victoria and Albert Museum, che sono esposti alcuni suoi disegni. Ma né la fama, né le critiche favorevoli convinsero Gugù a trasformare il suo talento in un vero e proprio lavoro che per lei rimase un semplice passatempo. I suoi pennelli erano anche strumenti per educare le madri a una sana puericultura. Disegnava bambini immersi in salutari bagnetti caldi, neonati vestiti di pannolini morbidi e puliti e non avvolti in strette fasce. E ancora bambini all’aria e al sole, sui prati e sulle spiagge. L’oca diventò uno dei personaggi più frequenti di tanti suoi disegni. Questo animaletto, simbolo di goffaggine e di scarsa intelligenza, divenne, grazie ai suoi pennelli, un personaggio amorevole e protettivo.
Ormai priva di tutti i suoi beni, Augusta si ridusse a vivere in un’umile stanza della sua casa di via D’Azeglio, con pochi e modesti mobili, spegnendosi una mattina del 1942 silenziosamente come era vissuta.