Oramai ridotte a scheletri vuoti, se non addirittura a ruderi spogli e malinconici in riva al mare, le colonie hanno un’importante storia alle spalle: nate a metà dell’Ottocento allo scopo di curare i bambini affetti da malattie tubercolari, durante il Fascismo si trasformarono in potentissimi strumenti autocelebrativi e di propaganda.
Oggi, il dibattito su come censire, tutelare e recuperare questo imponente patrimonio storico e architettonico italiano resta aperto e in larga parte irrisolto.
Le colonie marine traggono la loro origine dal movimento assistenziale e culturale – per lo più privato – che a metà Ottocento aveva iniziato a sperimentare le pratiche della talassoterapia, individuando nel mare un potente luogo di cura. La medicina pediatrica aveva scoperto, infatti, che i bambini malati di tubercolosi e rachitismo, patologie molto diffuse tra gli indigenti, traevano giovamento dall’esposizione al sole, all’aria iodata e all’acqua di mare.
In questo primo periodo, i cosiddetti ospizi marini hanno dunque finalità curative. Nel 1913, sulla sola costa adriatica se ne contano già quarantadue. Col progredire della medicina moderna, si arriva a distinguere tra i sanatori – strutture a funzione prevalentemente terapeutica – e le colonie, che sono invece strutture a funzione ricreativa e in cui vengono ospitati i bambini malnutriti, rachitici o gracili appartenenti alle classi meno abbienti.
Per arrivare a una vera svolta, dobbiamo aspettare gli anni Venti, quando il regime fascista individua nella colonia marina la struttura ideale in cui svolgere attività di propaganda, inquadrando la gioventù già durante gli anni della formazione. Progressivamente, le colonie perdono la loro funzione sanitaria e diventano luoghi di educazione, oltre che strumento efficace per la costruzione del consenso. Se nel 1927 i bambini ospitati sono 54mila, dopo undici anni arriveranno a quota 772mila in 4357 colonie sparse in tutta Italia, ma concentrate per lo più sul litorale romagnolo. E la cosa non deve sorprenderci, dal momento che lo stesso Benito Mussolini trascorreva le vacanze estive a Riccione, a Villa Margherita.
Il nuovo ruolo didattico e formativo delle colonie di epoca fascista determina una specifica tipologia edilizia e una nuova distribuzione degli spazi. Il tutto, in perfetta aderenza con gli elementi simbolico-celebrativi tipici dell’architettura del Ventennio: simmetria nell’organizzazione planimetrica, monumentalità del corpo centrale, imponenti rampe di scale, grandi volumi bucati da sequenze di aperture di forma elementare. Ecco allora la realizzazione di aree di grandi dimensioni con destinazioni d’uso diverse, come quelle per lo svolgimento delle attività collettive all’aperto, inondate dal sole e immerse nel verde, nonché quelle dedicate alle funzioni residenziali, come dormitori e mense, o le torri svettanti, le scale e i riferimenti alla macchina, così tipici delle avanguardie, che trasfigurano in temi spaziali e figurativi moderni il programma educativo del regime.
Col dopoguerra, le condizioni e le ragioni alla base della realizzazione delle colonie estive sul territorio italiano cambiano profondamente, alla luce di una nuova idea di villeggiatura, intesa come esperienza individuale di crescita all’interno della collettività. L’architettura delle colonie del dopoguerra si adegua ed esprime questo cambio di paradigma. Gli spazi e i volumi collettivi si spezzano, diventando più piccoli.
Sarà il boom economico a segnare il definitivo tramonto della colonia marina, intesa come forma di vacanza condivisa riservata ai più piccoli, spingendo fasce sempre più ampie e benestanti di popolazione a sperimentare forme nuove, moderne, di villeggiatura.
Oggi, per gran parte di questi edifici ridotti allo stato di rovina, le condizioni di degrado delle strutture fanno presagire il rischio concreto di un rapido e irrimediabile collasso. È il caso, ad esempio, della colonia Varese e della vicina colonia Montecatini, a Milano Marittima.
Situata su Viale Matteotti (tra la 24ma e la 25ma traversa), a poche centinaia di metri dalla colonia Varese, la Montecatini è abbandonata dal 1998. Inizialmente sarebbe dovuta sorgere a Marina di Ravenna tramite un concorso di progettazione al quale furono invitati alcuni tra i migliori architetti dell’epoca. Il concorso fu vinto da Eugenio Faludi e, per motivi a noi ignoti, la società Montecatini cambiò il sito di costruzione, dirottandola su Milano Marittima. I lavori iniziarono a marzo del 1938 e terminarono nel 1939. Inaugurata il 24 agosto, era in grado di dare ospitalità fino a 1500 bambini, oltre a 300 persone di servizio.
Faludi non mancò di inserire nel progetto due elementi che potessero, com’era consuetudine in quel periodo, esaltare la grandezza e la potenza del regime: un grande arco all’ingresso – mai realizzato – per emulare quello costruito da Adalberto Libera per l’Esposizione universale di Roma, e la maestosa torre di 55 metri, che i giovani balilla dovevano percorrere di corsa fino in cima, mettendo in mostra le proprie doti atletiche.
Dopo la guerra, la Montecatini passò di proprietà ai Monopoli di Stato, che la ristrutturarono nel 1952, ricostruendo parzialmente la torre. Altre ristrutturazioni furono realizzate dalla CMC di Ravenna nel 1954 e nel 1987. Nel 1998, la colonia venne definitivamente abbandonata.
Oggi, di questi giganti di cemento non resta che lo scheletro ed è forse questo il motivo per cui conservano intatto il loro fascino, al punto da essere diventati persino set cinematografici: è il caso della colonia Varese, intitolata al gerarca Costanzo Ciano, in cui furono ambientati due film: “La ragazza di latta” di Marcello Aliprandi, nel 1970, e l’horror “Zeder”, di Pupi Avati, nel 1983.
Ora, tra gli enormi spazi scarnificati regna il silenzio, interrotto soltanto dalle grida dei gabbiani e dal fruscio della pineta. Non si sentono più le voci dei bambini che giocano e scherzano, né il rumore dei passi e le loro risate, imprigionate in un tempo passato che non tornerà mai più.
Testo a cura di Valentina Zaffagnini
Immagini della Colonia Montecatini © Laura Gramantieri
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