Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.
Par. VI, vv. 10-12
Il VI canto del Paradiso è uno dei più particolari di tutta la Commedia perché viene totalmente affidato al monologo del suo protagonista, l’imperatore bizantino Giustiniano il grande.
Come ogni VI canto della Commedia anche questo affronta un tema politico: infatti dopo le sorti di Firenze affrontate nell’Inferno, e dell’Italia fratricida nel Purgatorio, Dante allarga ancora di più la sua visuale e riassume, con volo d’aquila, il passato, il presente e il futuro dell’Impero.
Siamo nel Cielo di Mercurio che ospita gli spiriti attivi, dunque protesi al bene in senso religioso, ma anche al successo personale, all’onore, alla fama. La voce narrante è quella di Giustiniano, nipote dell’imperatore Giustino, militare di carriera e imperatore a sua volta tra il 527 e il 565, la cui fama è legata soprattutto alla riconquista militare dell’Occidente attraverso le vittorie riportate contro i Vandali in Nord Africa e gli Ostrogoti in Italia, nonché all’emanazione del Corpus iuris civilis con cui veniva risistemato il diritto civile romano, creando la base legislativa per i secoli successivi. Le persone di cui seppe circondarsi e disporre in modo spregiudicato, come i generali Belisario e Narsete, lo aiutarono molto. Fu, come diremmo oggi, un bravo politico, uno che di istinto sapeva correggere la rotta a seconda degli eventi. Il che significa che dovette essere anche molto crudele: quando, nel 532, dovette dirimere le controversie interne inserendosi nella lotta tra Azzurri e Verdi, non esitò a far intervenire Belisario con l’esercito. Si racconta che quella rivolta interna fosse annegata nel sangue di trentamila morti. Luci ed ombre, insomma.
A lui si deve inoltre la costruzione della basilica della divina Sapienza (Hagia Sophia) a Costantinopoli, oggi considerata una delle bellezze senza tempo di Istanbul.
Al tempo di Dante le notizie sull’imperatore erano lacunose e questo spiega forse il fatto che il poeta ignori (o mostri di ignorare) i molti misfatti di cui Giustiniano si macchiò durante il suo principato, facendone la figura di un monarca esemplare in pieno accordo con la funzione spirituale della Chiesa.
Il Giustiniano della storia non è, quindi, il Giustiniano di Dante. Dante non ha bisogno di figure storiche, ha bisogno di miti. Camuffa, manipola per arrivare alla dimostrazione del suo teorema.
Non pare infatti vero che l’Imperatore bizantino abbia aderito alla dottrina monofisita, come invece fece sua moglie Teodora, che gli fu compagna intelligente e abile nel governo. Non è vero che i suoi rapporti con Belisario furono idilliaci.
Il teorema di Dante, cui non serve una figura storica ma un mito o quanto meno un personaggio ideale dotato di precise caratteristiche, prende corpo.
1) Giustiniano è stato l’imperatore capace di riportare l’Italia sotto l’autorità imperiale a differenza degli imperatori contemporanei a Dante che l’Italia l’avevano abbandonata;
2) Giustiniano è l’imperatore ideale che agisce in accordo con la Chiesa, antepone la fede alla ragione come è dimostrato dal fatto che la sua missione si esplicita storicamente dopo il ritorno all’ortodossia;
3) Soprattutto Giustiniano ha assolto alla funzione chiave, al ruolo modello di chi detiene il potere formulando le buone leggi che sono alla base di tutto l’ordine civile.
E insomma è proprio Giustiniano il personaggio legittimato a raccontare il correre dell’aquila, simbolo della dignità e del potere imperiali, dall’uno all’altro capo del mondo.
Dante non vede pause nella storia, non vede interruzioni nella linea dell’Impero, istituzione eterna al pari della Chiesa. Dante ritiene infatti che non ci sia stata mai frattura tra gli imperi: egli riconduce all’Impero romano sia l’Impero bizantino sia quello medievale, sia quello di Carlo Magno e quello di Federico II.
Secondo Dante, l’Impero è destinato a finire solo con il giudizio universale, così come la Chiesa: l’Impero ha infatti la stessa durata e compiti paralleli alla Chiesa.
Finita la lunga parentesi storica, il discorso di Giustiniano ritorna al presente. Il modo in cui Guelfi e Ghibellini si rapportano al simbolo imperiale svilisce il simbolo stesso: i primi lo contrastano, e cercano vanamente di sostituirlo con i gigli, simbolo dei nobili angioini, i secondi lo sfruttano per i propri interessi di partito, allontanandolo dall’ideale di giustizia che esso rappresenta.
Dante sicuramente ammirò a Ravenna l’immagine del grande sovrano che risplende tuttora nella ricca ornamentazione absidale di San Vitale. Cinto da diadema e nimbo, come lo rappresenta lo stesso Dante, (“duplice luce” Par. VII, 6), alla sua destra è la figura tradizionalmente attribuita al generale Belisario a cui il sovrano affidò “l’armi” durante la lunga ed estenuante guerra contro i Goti che restituì all’Impero i territori sottratti dai barbari ariani. Il potere politico imperiale, sorretto dalle fedeli milizie terrene e affiancato dall’autorità della Chiesa cattolica ortodossa, qui rappresentata dal potente arcivescovo Massimiano, con cui l’imperatore seppe procedere in pieno accordo, è ispirato e giustificato direttamente dal Cristo pantocratore che domina nel catino absidale.
Quindi potremmo dire che le immagini che Dante vede nei mosaici di San Vitale giustificano il suo pensiero, il suo teorema.
Ma nella Ravenna di Dante, vi era un’altra immagine, oggi purtroppo perduta, ad esaltare la grandiosità e la spiritualità del grande imperatore d’Oriente. Secondo la testimonianza di Andrea Agnello, proto storico ravennate vissuto nel IX secolo, nel muro di contro facciata di S. Apollinare Nuovo, un mosaico ritraeva l’immagine di Giustiniano nell’atto di consegnare all’arcivescovo Agnello, colui che attuò l’editto giustinianeo (561) sulla riconversione al culto cattolico degli edifici ariani, il diploma di donazione delle chiese ariane e dei loro patrimoni. Tale mosaico, segnalato pure da Girolamo Rossi nella seconda metà del XVI secolo, dunque presumibilmente integro all’epoca di Dante, ribadiva e rappresentava ancora una volta in modo esplicito il pieno accordo esistente tra Giustiniano imperatore e l’autorità ecclesiastica nella politica antiariana.
Se quindi il grande imperatore incarnava per Dante, a prescindere dai mosaici di Ravenna, l’“Impero legittimo”, è anche certo che il risalto concessogli nella terza cantica è in qualche modo equiparabile al ruolo da lui interpretato all’interno dei cicli musivi di San Vitale e S. Apollinare Nuovo.